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L’acquedotto Scillato

Un moderno sistema di smistamento delle acque per usi privati nella città di Palermo risale all’inizio del Novecento, quando si cominciò ad utilizzare l’acqua ricavata dalle sorgenti di Scillato.

Il centro abitato di Scillato, situato alle falde delle Madonie, è un grazioso paesino, dalla caratteristica formazione a cerchi concentrici, in cui gli edifici, costruiti in maniera “bifronte”, racchiudono ampi giardini e frutteti. Del paese si legge sulla guida della Sicilia a cura del Touring Club Italiano che “la località è soprattutto nota per le numerose e ricche sorgenti, che sgorgano dalle pendici delle Madonie e contribuiscono all’approvvigionamento idrico del territorio palermitano”.

Le sorgenti si trovano ad una quota superiore a quella del paese; l’acqua affiora a 376,68 metri sul livello del mare, come una scritta dipinta sulle pareti esterne della botte di riunione dell’acquedotto ricorda. Da un punto di vista geologico, il bacino imbrifero delle sorgenti è quello formato dai Monti Fanusi, Castellaro, Cozzo di Castellazzo, Monte dei Cervi, Cozzo Morto, Piano della Madonna, Balata di Caltavuturo, Cozzo Vuturo. La zona è fortemente interessata dal fenomeno carsico; questo è dovuto alla composizione chimica delle rocce, a forte componente calcarea. Il carbonato di calcio, che costituisce il principale composto di cui sono formate le rocce del massiccio dei Monti Fanusi, a contatto con acqua ricca di anidride carbonica mette in atto una reazione che tende a far disgregare la massa rocciosa, creando le depressioni ad imbuto, tipiche del fenomeno, che sono dette doline. Qui l’acqua si infiltra, scorrendo in sorte di cavità sotterranee, quasi dei fiumi. Il fenomeno carsico, che prende il nome dalla zona del Carso, in Friuli Venezia Giulia, comprende reazioni reversibili: non è raro che si formino anche stalattiti e stalagmiti. In Sicilia, il carsismo è piuttosto frequente, determinato dalla composizione chimica prevalente dei massicci montuosi dell’Isola; anche Monte Pellegrino, per esempio, è interessato in modo spiccato da questo fenomeno, denotato dalla presenza di gole ed inghiottitoi. Nel caso di Scillato, le acque che scorrono nel sottosuolo affiorano alla quota, come abbiamo detto prima, di 376,68 metri, a monte del paese, nella località detta contrada Sorgive; le tre diverse sorgenti che si creano prendono il nome di Agnello, Bosco e Golfone.

Tornando rapidamente alla storia dell’acquedotto, bisogna accennare al fatto che per ragioni igieniche, in seguito anche a due epidemie di colera che avevano colpito la popolazione della città di Palermo, si ritenne opportuno, alle soglie del Novecento, dotare la città di un sistema di distribuzione dell’acqua moderno ed efficiente.

Nel 1886, dunque, il sindaco di Palermo, Giulio Benso, Duca della Verdura, fece bandire una gara d’appalto per la distribuzione in città delle acque derivate dalle sorgenti di Scillato; fu una società inglese ad aggiudicarsi la gara, ma, per ragioni mai chiarite, non fece mai dare inizio ai lavori, e perse la somma di 200.000 lire, una cifra piuttosto alta per l’epoca, che era stata versata come caparra al Comune.

Sette anni dopo, nel 1893, il sindaco Ugo delle Favare assegnò i lavori per la costruzione dell’acquedotto ai fratelli Giovan Battista e Celestino Biglia, e ad Alessandro Vanni, piemontesi. In tempi straordinariamente brevi venne portata a termine la struttura dell’acquedotto, di cui facevano parte, oltre alla rete di collegamenti che, dal luogo in cui le acque venivano attinte, sfruttando le pendenze, portava la fornitura idrica in città, anche due serbatoi, che si trovano nella località San Ciro, sul monte Grifone, alla periferia sud-orientale della città, e la rete di distribuzione dell’acqua alla popolazione. All’inaugurazione dell’acquedotto non fu presente il re d’Italia Umberto I, che mandò a Palermo, in sua vece, Francesco Crispi; la cerimonia coincise con quella che celebrava la realizzazione del Teatro Massimo, progettato dai due architetti-simbolo del Liberty siciliano, Giovan Battista Filippo Basile e suo figlio Ernesto. L’acquedotto fino al primo dopoguerra sopperì adeguatamente ai bisogni dei palermitani. Di seguito, citeremo alcuni passi tratti dal documento autentico, recentemente ristampato, compilato nel 1897 dai tre concessionari dell’acquedotto. Il primo brano che ci sembra opportuno proporre parla delle motivazioni che spinsero i maggiorenti del Comune di Palermo a bandire un concorso per la realizzazione di un sistema di adduzione e smistamento di acque salubri alla cittadinanza: “Il problema di dotare la città di Palermo di acque buone ed abbondanti aveva preoccupato da gran tempo gli animi dei rettori del Comune; ma la sua soluzione s’impose dopo il colera degli anni 1884 e 1885 e dopo che i postulati della scienza proclamarono le cattive acque quale veicolo delle malattie infettive. Ed essendo sindaco l’onorevole Senatore Duca della Verdura fu bandito un concorso per condurre in Palermo le acque fresche e pure delle sorgenti di Scillato. Però non se ne raggiunse tosto lo scopo; e solamente dopo lunghe e varie trattative si poté il 12 febbraio 1893 dal Municipio, essendo sindaco il sig. Marchese Pietro Ugo delle Favare, Senatore del Regno, conchiudere un contratto di concessione, per il quale onde assicurare alla città un volume d’acqua che corrispondesse ai bisogni della popolazione ed alle prescrizioni igieniche si fece obbligo ai signori Giovan Battista e Celestino Biglia e Alessandro Vanni di condurre a Palermo da 350 sino a 500 litri al minuto secondo di acqua dalle sorgive di Scillato”. Il comprensorio delle sorgenti di Scillato si trova, abbiamo accennato, alle falde delle Madonie; la strada si inerpica in mezzo ai boschi, in un sereno paesaggio collinare. Non è frequente incontrare qualcuno, il silenzio è quasi assoluto, il profumo di piante e fiori è molto piacevole; una volta entrati nella zona dove si trovano le fonti, percorrendo un viale fiancheggiato da alberi, si raggiunge uno spiazzo, su cui si aprono un edificio, un tempo adibito ad abitazione per i custodi, e la botte di riunione. Le sorgenti vere e proprie, come nel caso del Gabriele, sono celate da edifici assolutamente anonimi, posti al solo scopo, fondamentale, di proteggere la purezza dell’acqua. Anche in questo caso, quindi, dall’esterno l’apparenza è di assoluta banalità, mentre l’interno, con le acque che scorrono tumultuose, è molto affascinante. Anche l’edificio detto botte di riunione ha un fascino particolare; si tratta di un insieme di bacini, in cui le acque vengono raccolte, per far in modo che perdano l’impeto che acquistano attraversando le canalette in forte pendenza.

Citando sempre lo stesso testo, infatti, possiamo sapere che “mediante cunicoli di allacciamento quasi intieramente accessibili, di cui parte in muratura e parte perforati in galleria ad un livello inferiore a quello a cui prima sgorgavano le sorgive, le acque si versano in un edificio di presa, detto botte di riunione. A cagione della forte pendenza, diminuita da alcuni salti verticali di m. 2,40, 3,00, 5,85, le acque arrivano in questo edificio quasi tumultuosamente; sicché per calmarle la botte fu divisa per mezzo di muri di diaframma in diverse vasche comunicanti fra loro in modo che l’acqua, costretta a salire e discendere parecchie volte, giunga in discreta calma nella camera di misura”.

Come abbiamo accennato prima, fanno parte dell’acquedotto, oltre al comprensorio delle fonti, tutto il sistema di tubazioni che porta l’acqua a Palermo e poi la smista alla cittadinanza; ovviamente, il percorso è relativamente lungo, quindi sono previsti passaggi attraverso ponticanale, scivoli ed altre strutture adatte. All’arrivo alle porte della città, l’acqua viene raccolta in due serbatoi, in località San Ciro, alle porte di Palermo. I due edifici, visibili all’imbocco dell’autostrada, in direzione Messina, appaiono, esternamente, simili a due sorte di palazzine, dalle mura color ocra gialla, immerse nel verde. Sulla facciata del serbatoio superiore, due lapidi ricordano i lavori di messa in opera del grande capolavoro di ingegneria che è l’acquedotto di Scillato. Anche sul prospetto di Palazzo delle Aquile, a Palermo, è applicata una targa che ricorda la costruzione dell’acquedotto, segno di benessere e di crescita per la città. Le targhe sono per molti aspetti simili ma, stranamente, mentre una di quelle poste a San Ciro ricorda, correttamente, che le acque sgorgano “dal fresco seno delle Madonie”, quella di palazzo delle Aquile fa cenno ai Nebrodi. Il perché di questa stranezza non è chiaro; si può supporre, però, che, in passato, non solo la catena oggi denominata Nebrodi, ma anche i Peloritani e le Madonie, fossero indifferentemente designati con il medesimo toponimo. Questo non spiega, però, perché la targa posta sul muro esterno del serbatoio superiore di San Ciro porti, invece, la dizione corretta; non è escluso si possa essere trattato semplicemente di un errore.

Ora, continuando a citare dal testo di prima, leggiamo che “per potere regolare il servizio di distribuzione dell’acqua in maniera costante ed uniforme ed alimentare la rete interna anche durante le eventuali interruzioni del canale, si sono costruiti in una località alpestre detta S. Ciro, a pochi chilometri dalla città, due serbatoi, uno alto e l’altro basso, capaci complessivamente dippiù che 35000 metri cubi d’acqua. Il serbatojo (sic) alto, in buona parte ingrottato nel monte, è diviso in due vasche, ed ha complessivamente la capacità di più che 26000 m3; il serbatojo basso invece ha una sola vasca capace di oltre 9000 m3 d’acqua. Tanto la parte del serbatojo alto a cielo aperto quanto quella del serbatojo basso sono ricoperte da volte a botte sostenute da archi e pilastri”.
Sono proprio queste volte e questi pilastri che attirano, più di ogni altra cosa, l’attenzione di chi ha la possibilità di accedere ad uno dei serbatoi. All’interno, superato un primo momento in cui, a causa del forte odore di cloro, che viene aggiunto all’acqua per ovvi motivi di igiene, ed a causa della penombra che regna, si può provare un senso di vaga oppressione, lo spettacolo dell’acqua che si getta nella vasca e che riflette, limpida, i pilastri in mattoni e le volte a botte che coprono gli ambienti, è di grande suggestione. L’esterno dell’edificio, quasi un giardino delle delizie, in cima ad una strada che sale serpeggiando con una forte pendenza, gode di una meravigliosa vista che, dal castello di Maredolce, spazia fino al mare.

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